Parafrasando Agostino si potrebbe dire: se non me lo chiedi lo so, ma se me lo chiedi non lo so più.
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Nel senso che ognuno di noi ha, o crede di avere, una certa esperienza dell’amore, ma se prova a riflettere sulla sua esperienza allora i concetti si fanno sfuggenti e sembra assai più facile descrivere l’amore per ciò che NON è, piuttosto che per ciò che è.
In effetti conosco un sacco di libri dottissimi in cui si spiega cosa non è l’amore, ma pochi in cui mi si dica cosa effettivamente è.
Forse è anche giusto così, forse il tentativo di concettualizzare l’amore lo ucciderebbe, forse l’amore può essere descritto solo con dei verbi (come fa S. Paolo nel celebre “inno all’amore”) e non con dei sostantivi; come dire che l’amore è movimento, azione, processo e non un essenza statica da definire con il linguaggio formale della metafisica o della logica.
Forse dell’amore non si può parlare, si può solo viverlo, forse per questo i manuali (almeno quelli che valga la pena di leggere) sono così pochi.
Tra questi verbi uno mi ha affascinato nella preghiera di stamattina, il verbo compiacersi.
Il Padre si compiace nel Figlio, così dice il Vangelo, così ripete la teologia trinitaria.
Quindi l’amore trinitario, che è il modello di ogni amore, è essenzialmente un compiacersi del Padre nel Figlio e viceversa.
Se questa è la natura dell’amore trinitario allora dovrebbe ritrovarsi in ogni amore: nell’amicizia, nel fidanzamento e nel matrimonio, nella vita comunitaria e nei conventi, nell’assistenza ai poveri, nella paternità e maternità, in ognuna delle mille categorie in cui suddividiamo l’amore, che però deve restare essenzialmente se stesso in tutte le sue forme.
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