Il giudizio – ci dice San Tommaso – non si restringe all’ambito forense, ma investe ogni categoria morale, così che esso diviene la «determinazione retta di qualsiasi cosa, sia nell’ordine speculativo che nell’ordine pratico».
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Giudice è quindi il magistrato, ma anche ogni persona che giudica qualcosa o qualcuno.
Molto importante, inoltre, è la disposizione di chi giudica, poiché il giudizio è giusto nella misura in cui una persona ha la virtù della carità e i doni soprannaturali della sapienza e della prudenza.
Il problema non è dunque il giudizio in sé stesso, ma se esso sia «un atto di giustizia» o non piuttosto un’ingiustizia.
Per questo motivo, affinché il giudizio sia vera giustizia, si richiedono all’uomo tre cose:
che il giudizio «derivi dall’abito della giustizia,
che derivi dall’autorità di uno che comanda
e che sia emanato secondo la retta norma della prudenza».
San Tommaso, pertanto, ammette che sia lecito giudicare, ma lega la validità del giudizio a queste tre condizioni, che solo di rado sono rispettate.
Quando, infatti, un peccatore giudica un altro peccatore, non lo fa come qualcuno che ha un’autorità sul peccato.
Egli non è un giusto tra i peccatori, ma è un peccatore tra molti.
In tal modo annulla la seconda condizione e il suo non è più un atto di giustizia, bensì è un «giudizio usurpato».
Usurpato a Dio.
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